Articolo pubblicato nel 1984 su “ARTE E TERAPIA” scritto da Bertil Sylvander. Adattato e tradotto dal francese da Vivian GLADWELL.
In questo articolo tenterò di rispondere a due domande:
Chi è il clown?
Perché e come la ricerca del proprio clown permette lo sviluppo personale e un passo verso la consapevolezza interiore?
Chi è il clown?
Non desidero (e sarebbe troppo faticoso per me) scrivere delle origini storiche del clown, o di archetipi dell’inconscio collettivo o di interpretazioni psicanalitiche. Andrò direttamente all’essenziale, che è la mia esperienza personale di clowning. Qualcosa che potrebbe sembrare ovvio ma non lo è affatto è la distinzione che io faccio tra “IL CLOWN” che è sul palcoscenico di fronte al pubblico e “la persona” che è dietro al naso rosso e dà vita al clown.
Il clown è fondamentalmente un essere emotivo
I clown provano ed esprimono emozioni forti ed intense.
Rispondono ad eventi che spesso a noi persone normali appaiono frivoli. Se all’improvviso un raggio di luce attraversa la stanza, un clown potrebbe gioire perché è la cosa più bella e grandiosa che gli è successa in tutta la vita, mentre un altro potrebbe deprimersi completamente e inspiegabilmente. Qualsiasi siano le loro reazioni, i clown sono espressivi e fragili nelle loro emozioni: rimangono molto in contatto con quello che sta succedendo dentro di loro senza preoccuparsi troppo se questo ha senso o se è la cosa giusta da fare.
Per un clown lo stato emozionale provocato da un evento viene percepito come un’esperienza travolgente; è tale percezione ossessiva e convulsa dei sentimenti che obbliga il clown ad identificarsi con il mondo intorno: il clown ha un’empatia con il mondo. Il clown è un empatizzatore.
Identificarsi con un oggetto, identificarsi con l’altro
Se qualcuno piange, il clown potrebbe farsi travolgere dalla tristezza senza sapere il perché, semplicemente attraverso l’empatia e l’immedesimazione. Questa fusione coi sentimenti spesso porta i clown a ripetere gesti, suoni, parole e movimenti che danno loro piacere. Questo si chiama il gusto dell’eccesso e dell’esagerazione.
Il clown vive l'”adesso” in ogni secondo
L’intensità che sperimentano i clown viene dal fatto che loro vivono il momento presente in ogni secondo. I sentimenti e le emozioni nel presente sono la cosa più importante del mondo per loro, ed essi non si preoccupano di che cosa succederà il secondo successivo. I clown si danno il tempo per assaporare i tesori incredibili contenuti nel momento (eccetto che nel caso in cui il loro sentimento sia la preoccupazione, allora si preoccuperanno, moltissimo. I clown allora si adattano allo stato di preoccupazione con serenità). Rimanere vicini al presente permette ai clown di vivere appieno le loro emozioni. Sono ottimisti cronici ed hanno tutto il tempo del mondo per aspettare che le cose girino nel modo in cui vogliono loro.
Il clown vive attraverso ciò che è “vero e oggettivo”
Il clown non è sopra un palco finto che recita l’Amleto. No, loro sono qui con noi, il pubblico, in una stanza o altrove. I clown ci vedono, e attraverso il contatto visivo condividono con noi ogni loro pensiero e sentimento. Questo è ciò che differenzia il clowning dal teatro tradizionale. I clown hanno una relazione molto oggettiva con il mondo. La realtà attuale del clown viene condivisa e vissuta insieme a noi. Il clown è anche una fonte concentrata di fantasie sdolcinate. Il più piccolo evento, la più piccola emozione evoca dentro al clown ogni sorta di immagini fantastiche che poi lo conducono ad imbarcarsi in avventure fantastiche.
Gli scivoloni (controllati) dell’ immaginazione del clown… verso l’assurdo
Tuffandosi nel mondo dell’immaginazione, i clown ne sono alla sua mercé.
Come corridori di formula 1, i clown slittano nel bel mezzo della propria immaginazione. Abbandonano la strada, attraversano rincorrendosi campi, saltano fossi e ritornano in strada più avanti. I clown sono piloti da corsa. La loro follia è basata sul non senso: l’Assurdità non spaventa i clown minimamente. Il non senso è una forma razionale di pazzia, è un delirio logico.
Momenti cruciali nel clowning: rompere il filo
I clown possono anche essere pazzi alla mercé della loro immaginazione e slittare sul ghiaccio del delirio… Ma non fatevi ingannare! I clown sono ben consapevoli dei segnali stradali. Quando ci guidano in un certo mondo fatato i clown non vogliono in realtà che crediamo nel mondo che stanno creando, perché ci credono loro stessi per metà…anzi, diciamoci la verità, non ci credono affatto (quello cui dovremmo credere comunque è il modo in cui i clown vivono attraverso le loro fragili costruzioni).
I clown vivono tutte le loro avventure patetiche e disastrose davanti a noi e con noi. Non cercano mai di ingannarci (sarebbe presuntuoso, in quanto le sceneggiature sono inadeguate) perché non ingannano mai se stessi.
Fare clowning richiede tenere un occhio vigile su quella che è la linea di separazione tra la realtà e il mondo immaginario. Questo si opera facendo un passo indietro e prendendo le distanze di tanto in tanto. E’ un momento cruciale del clowning. Lo chiamiamo rompere il filo o “distanziamento”. Basta guardare un bambino giocare e diventa ovvio. Il bambino è sia dentro alla realtà che dentro ad un mondo immaginario. I clown trovano le loro soluzioni per impedire che la pazzia li porti completamente oltre il limite della strada. (Costituirebbe un imbarazzo notevole se il pubblico pensasse che il clown è veramente pazzo).
E’ importante capire che quando le emozioni e i sentimenti divengono troppo forti nel clowning, i clown sono liberi di giocarci. E’ questo “liberarsi” che fa emergere sollievo e risate dal pubblico, perché esso sdrammatizza una situazione di tensione, esorcizza la tragedia. (la persona dietro al naso rosso stessa vivrà questo sollievo per sé stessa).
I clown sono quindi in grado di liberarsi dalla tensione drammatica che creano. I propri sentimenti, quelli del partner e del pubblico non li limitano. Questo è perché i clown sono esseri capricciosi, instabili, maniaco-depressivi, versatili e liberi. In altre parole, i clown vivono il presente. Possiamo farci commuovere dalle loro emozioni, trasportati dalla loro immaginazione, preoccupati dai drammatici e complessi eventi con cui si struggono, intrigati dalla logica che sviluppano e profondamente sollevati dalla loro risata, dalle loro capriole, il loro liberarsi degli eventi o dal far l’occhiolino che sdrammatizza il tragico.
Nel profondo il clown è un essere vulnerabile
Tutte i fili che ho introdotto ed intessuto uno nell’altro formano un tutt’uno indissolubile: la trama del personaggio del clown. E’ su questa trama che ognuno di noi tesserà, nel proprio modo, il nostro proprio personaggio del clown (ovviamente questo carattere evolverà come e quando noi scopriremo significato e ci avvicineremo a noi stessi attraverso la creazione di tale personaggio).
Ma guardiamo più da vicino il colore che sottende tale personaggio. I clown sono principalmente fragili e vulnerabili (è da questo che traggono la loro forza). Mentre la società si aspetta da noi bellezza, intelligenza, controllo delle emozioni e successo nei nostri progetti, i clown non si vergognano a mostrare le loro disabilità fisiche, il loro spirito semplice (per non parlare della loro seducente follia), le loro emozioni incontrollate e travolgenti. Ovviamente una siffatta costituzione porta i clown da un fallimento ad un altro (fino al successo finale, chiaramente). I clown non sono come gli invincibili eroi dei western americani, ma più simili a impacciati esemplari di fallimento perpetuo senza speranza.
Ed è proprio per questo che adoriamo i clown! Per noi, dentro di noi e con noi i clown giocano a “Chi perde vince”. Peggio va, maggiore è il successo, perché è giocando sulle loro debolezze che diventano forti. (Dove c’è il fango, c’è l’oro…). Perché è così?
Prima di tutto ciò avviene perché i clown non si vergognano di essere sé stessi, e di presentarsi a noi profondamente umani e vicini alla nostra natura che risuonano qualcosa in noi. Essi portano anche la responsabilità della loro natura senza lasciare a nessun altro tale fardello.
E’ tale auto-accettazione che li rende impavidi ottimisti. Sono perdenti dall’animo vincente, attraversano orgogliosamente innumerevoli ostacoli fino a che non trovano la propria soluzione all’interno del caos dei loro problemi.
Mettendosi da parte, il clowning ci mostra quanto vani, ridicoli e disperati siano gli sforzi verso il successo. E’ attraverso il fallimento che i clown mostrano la loro saggezza. Nonostante si imbarchino nei loro progetti con grande intensità emozionale, vi è nel profondo una serenità, un distacco che ci riempie di pace. Ci si rende conto che non si ride dei ma attraverso i clown.
I clown alla fine vincono, perché ridicolizzano le pressioni sociali e ci dimostrano che la felicità è possibile senza per forza conformarsi alle norme di bellezza, autocontrollo e intelligenza logica esaltate dal clown bianco. Nel distruggere il mito delle apparenze superficiali e nel garantirci il diritto di essere noi stessi, il clown rende noi (e la persona di cui recitano la parte) in grado di sentirci meglio con noi stessi. E’ chiaro perché il clown sia così amato dai bambini – e dal bambino dentro di noi – il clown è dalla loro parte nella lotta per l’acquisizione di una identità e nell’affrontare le pressioni a conformarsi come adulti.
Perché e come la ricerca del proprio clown facilita la crescita personale?
Dopo aver presentato il personaggio del clown, porterò ora i miei pensieri sulla relazione tra la ricerca del proprio clown e la crescita personale (suona meglio di una terapia).
Ricercare il proprio clown ha veramente effetti terapeutici. Anche se non può, ritengo, essere considerata una vera e propria forma di terapia, può però accompagnare, coadiuvare e preparare una persona a tale esperienza.
Perché e come?
Cercare il proprio clown è principalmente un lavoro verso una propria auto-espressione. Trovare il proprio clown non è questione di “imparare a fare cose buffe”, bensì consiste nel trovare dentro di sé un clown unico come unici siamo noi tutti.
L’auto-espressione, che costituisce la base di questa ricerca, richiede prima di tutto la creazione delle condizioni che permettano la liberazione dalle inibizioni, una perdita del controllo, un nulla osta alla creatività. Tutte condizioni, in sostanza, necessarie nel gioco. Come Winnicott (1971) dichiara: “E’ nel gioco e solo nel gioco che un individuo è in grado di essere creativo”.
A queste condizioni, dove tutto è permesso, creare un ambiente sicuro è essenziale. Avverrà quando si chiarirà che non vi è giudizio (degli altri, e di sé stessi da parte degli altri), né confronto, né tentativo sistematico di intellettualizzare ciò che avviene. Ciò significa che quello che viene espresso non può divenire l’oggetto di un’analisi o interpretazione a meno che la persona coinvolta non esprima chiaro consenso in proposito. Per cui crediamo che ciò che viene espresso abbia valore in sé stesso, semplicemente per il fatto di essere stato espresso. Guy Lafargue (1984) scrive: “La creazione artistica, poetica, fisica o intellettuale è chiaramente ambigua in quanto, mentre rivela il contenuto latente delle esperienze vissute, protegge anche l’individuo da un eccesso di sentimenti. Ciò è possibile solo quando l’individuo sente un senso di sicurezza nella situazione creativa.”
Una seconda condizione che garantisca un ambiente sicuro per l’espressività, legato alla prima, riguarda come investiamo la nostra identità e noi stessi in questo lavoro. Scoprire la caratteristica fondamentale di vulnerabilità del clown significa che prima di iniziare il lavoro noi abbandoniamo da una parte gli stereotipi del clown che vengono trasmessi attraverso la cultura di massa e, dall’altra, che dobbiamo lasciare da parte progressivamente i preconcetti più cari che ci dipingono come individui invincibili, forti e di successo. Tutto ciò implica correre dei rischi che sono ricompensati dal piacere dell’espressività creativa. Guy Lafargue scrive: “Il lavoro terapeutico tenta di riconoscere un sintomo di vunerabilità nella sua forma creativa e linguistica, ma in modo da permettere al singolo di far esperienza di questo come di un traguardo creativo…”.
“Stabilire uno spazio per la creatività significa dare al soggetto la possibilità di esplorare un territorio in cui lui/lei si allontana inconsciamente dal sintomo nel contesto di un’attività altamente strutturata quale è la progressiva costruzione di significato.”
Come per il lavoro sui sogni svolto con la Gestalt, o nel profondo rilassamento nella “sofrologia”, o sulla scrittura automatica dei Surrealisti, questo lavoro, quando protratto fino ad una forma teatrale di espressione, porta la persona a ricercare il rilascio dell’immaginazione attraverso il delirio fisico o verbale. In questo modo i messaggi grezzi dall’inconscio vengono rivelati. (Meno male!).
E’ per questa ragione che diamo un grande valore all’improvvisazione, ed una grande importanza al corpo. Siccome il linguaggio spontaneo del corpo è generalmente meno controllato della parola, esso esprime più facilmente la nostra autenticità (purché glielo permettiamo).
Se le condizioni che ho appena citato sussistono, i personaggi profondamente vicini ad ogni persona prendono vita attraverso gli esercizi e le improvvisazioni.
La mera consapevolezza di ciò è già di per sé terapeutica.
La pazzia e l’immaginazione del clown.
L’espressione della personalità del clown non appare “da sola”, all’improvviso. Avviene per mezzo di una sostanza che è la pazzia del clown.
Nel nostro lavoro, noi cerchiamo questa pazzia e cerchiamo di farla fiorire. Comunque, non è una forma di pazzia incontrollata ma ha una logica sua cui ho già accennato. Uno potrebbe anche chiamarla delirio paranoide! O, secondo Seglas (1895!), “è lo sviluppo di idee deliranti strutturate e persistenti,…., un’interpretazione peculiare della relazione tra il mondo al di fuori e la personalità della persona sofferente.” Più oltre: “E’ il coerente sviluppo di un evento drammatico, con un argomento inconfutabile, chiaro, perspicace e convincente!”.
Questa citazione ben spiega la pazzia del clown. Prima l’eccentrico e personale modo di relazionarsi ed interpretare la realtà del clown. E’ questo che ci rende possibile capire i clown anche nella loro pazzia. I clown vedono la realtà che noi vediamo(oggetti, posti, eventi, i partner, l’audience) in una maniera peculiare e strana, ma intellegibile.
Io credo anche che questa intelligibilità venga dal fatto che i clown non seguano senza meta ogni immagine o fantasia che appare loro. La pazzia del clown è strutturata. (Si potrebbe anche dire che sia teatrale).
Non dimentichiamoci neppure che il clown sta vivendo attraverso un’avventura e agisce e vive emozioni in relazione ad eventi man mano che essi si dispiegano. L’assurdità ed il nonsenso non escludono affatto il bisogno di una trama.
Infine, il valore terapeutico del cercare il proprio clown non si limita all’espressione puntuale di questa o quella emozione o di questa immagine, ma si trova anche nel fatto che questa ricerca è strutturata all’interno di una logica unica ad ogni individuo e che rivelerà caratteristiche di quell’individuo non solo all’interno di un contesto emozionale, ma anche all’interno dell’azione teatrale.
Per finire questo paragrafo, sento di dovervi ricordare che nonostante il clown possa essere paranoico, non significa che la persona o l’individuo lo debba essere necessariamente! Tornerò su questo punto più avanti.
Vivere nel momento presente
Come ho già detto prima, noi lavoriamo molto con l’improvvisazione. La grande difficoltà del lavoro di improvvisazione è che ci richiede di essere consapevoli di cose che avvengono nel presente. Che è coerente col fatto che il clown è qualcuno che vive nel presente. Ma l’esperienza dell’improvvisare spesso porta con sé la paura stessa che può inibire l’espressione. E’ la paura di mostrarci, di offrire noi stessi per essere visti.
Nel fare esperienza di questa paura, dovremmo semplicemente rimanere nell’ascolto di come trasforma la nostra percezione del luogo in cui siamo, del partner con cui recitiamo e dell’audience. Le immagini, i movimenti e le emozioni appariranno e ci metteranno in relazione con questa paura. I clown giocano con questa confusione di emozioni e realtà.
Se la persona teme una situazione, il clown può esprimere questa paura (e giocarci); se la persona prova piacere ad essere lì, il clown può mostrare questo piacere; se la persona “non sa cosa fare”, il clown può mostrare come vive il fatto che la persona non sa cosa fare (attraverso i gesti, la voce e le parole e nel processo che attraverserà il clown). Parentesi sbagliate Esprimere il vuoto è già esprimere qualcosa.
L’improvvisazione consiste nell’arrivare sul palco vuoti (predisposti e ricettivi verso tutto quello che può succedere) ma carichi di tutta la propria immaginazione. Le persone con cui lavoriamo hanno tutte notato lo straordinario potenziale che ciò comporta. Dunque alla paura di “non trovare nulla da fare” si sostituisce gradualmente la consapevolezza delle ricchezze incredibili che attendono solo di essere colte.
Passiamo dall’essere inibiti nel nostro corpo al divenire gradatamente più sicuri di quello che ci può dire. Anche quando proviamo una sensazione di vuoto vacuo, il corpo diventa il nostro compagno più fedele ed affidabile. L’ evento più insignificante può diventare il filo con il quale un’intera improvvisazione può esser tessuta. In questo modo, una folata di vento in una stanza può dare una sensazione rinfrescante alla pelle. Se noi ascoltiamo il nostro corpo invece di ignorarlo, le emozioni e le immagini riaffiorano spontaneamente alla mente. Un gesto spontaneo, se credi in te, non deve per forza avere un significato immediato. Lascia che cresca dal di dentro, sii ricettivo di quello che ti sta dicendo. L’emozione e il significato arriveranno come extra. “Sii felice nel presente”
La connessione con l’emozione presente è dunque un aspetto essenziale dell’improvvisazione nel clowning. Questa connessione diventa sia più semplice che più complessa quando si improvvisa in due, per esempio. Più semplice perché l’altro clown è una fonte di ispirazione immediata, un originatore di proposte. Più complessa perché, per quanto uno sia ricettivo dell’altro, quest’ultimo deve comunque esprimersi molto chiaramente. Ciò implica a sua volta che debba avere chiaro in testa quello che sta avvenendo. Lavorare in coppia può essere definito come: “Ascoltarsi – ascoltare l’altro”
In questo modo l’improvvisazione del clown ci porta verso una relazione autentica con l’altro basata sulla chiarezza ed una flessibilità di emozioni.
I clown vivono una realtà oggettiva e condivisa. Rimanendo nel “qui ed ora”, i clown non possono fuggire dalla realtà delle proprie esperienze, ed in più i clown non lasciano mai la presenza dell’audience. Dunque “qui ed ora” è il motto del clown.
Le capacità richieste per improvvisare come clown posseggono un valore terapeutico enorme. Dopo tutto quello che è stato detto uno potrebbe trarre la conclusione che il clown è semplicemente pazzo. Attraverso l’espressione dei nostri sintomi si verifica un’accresciuta consapevolezza e l’effetto terapeutico. Uno potrebbe anche dire che le capacità richieste per improvvisare nel “qui ed ora” siano sufficienti per definire l'”effetto terapeutico”. Ma qualcosa di essenziale manca ancora, e cioè il rompere il flusso, o distanziamento.
Rompere il flusso, Distanziamento e auto-consapevolezza.
Abbiamo visto nella prima parte come i clown si distanzino dalla pazzia, dai sentimenti o dalla logica con il ritmo dei movimenti corporali. Abbiamo visto che la funzione teatrale di questo distanziamento era di esorcizzare cariche emotive ed affettive create dal clown e che infine, attraverso il sollievo che ciò procura, di portare il divertimento all’audience.
Come porta tutto ciò ad una consapevolezza accresciuta e ad una crescita personale?
Attraverso un’improvvisazione, la persona produce dentro ed attorno a sé energia emotiva. Ciò viene fatto attraverso il rischio di esprimere qualcosa di personale ed autentico. Nonostante ciò, allo stesso tempo il clowning impone delle costrizioni tecniche che mettono la persona di fronte alla realtà. La realtà di essere sul palco, di improvvisare, di essere con altri ricercatori di clown, di avere successo o di fallire. E tutto ciò, non dimentichiamolo, la persona lo fa mentre gioca. Questo confronto pone dei limiti alla pazzia o al delirio della persona e la “salva”.
In effetti, né la persona né il clown entrano in uno stato di pazzia vera. Farlo significherebbe perdere il contatto con la realtà senza la possibilità di sapere che uno l’ha perso perché la realtà diventerebbe un’illusione. L’essere consapevole di essere matti implica il non esserlo.
Il cercatore di clown usa il delirio come Salvador Dalì usava la paranoia critica. Secondo G. Bertrand (1980), questo è “un metodo spontaneo per acquisire conoscenza irrazionale basato su un’associazione interpretativa dei fenomeni di delirio…” Nella paranoia, Dalì cercò di usare messaggi grezzi dall’inconscio, la logica dell’assurdo, coerenza all’interno dell’incoerenza, ma rifiutò di diventare un prigioniero del sistema e mantenne il diritto di osservarne semplicemente le sue più bieche aberrazioni. Gli artisti giocano su questi due livelli: imitando la psicosi, rilasciano poteri
orti e oscuri da dentro sé stessi, ma modellandoli attraverso l’espressione artistica, fuggono dal loro controllo e sono salvi.
Tutto ciò mi porta a pensare che nel clowning il “modellamento dell’espressione artistica” è il confine che l’espressione teatrale pone attraverso il distanziamento. Questo modellamento dell’espressione artistica fornisce uno spazio sicuro che permette l’auto-espressione. L’auto-espressione cresce di pari passo alla capacità della persona di usare tale spazio per un’esplorazione dei propri sintomi (e di provare piacere in tale processo, che non è affatto poco!).
Le regole e convenzioni del teatro sono, credo, simili al concetto di controllo in terapia, dove emozioni violente e sentimenti forti possono generalmente venir espressi senza che il paziente li manifesti fisicamente.
La persona che ricerca il proprio clown prova sentimenti veri, ed allo stesso tempo ci gioca. Questo è un punto che disorienta molte persone durante i workshop. Janine sta improvvisando e decide di inscenare un incontro col padre. Sentimenti di abbandono cominciano a insorgerle dentro. L’energia emozionale diventa intensa e mette a disagio l’audience. L’audience (inconsciamente) accetterebbe volentieri una pausa che porti sollievo. (altrimenti non è più clowning, ma tragedia!). Janine arretra dalla sua improvvisazione. E’ disturbata e piange. E’ arrabbiata: “Mi hai detto: senti la tua emozione e recitala. Questo è il risultato.” Noi le rispondiamo: “Janine, è possibile essere sia autentici sia giocare allo stesso tempo. Esci da te stessa. Può sembrare contraddittorio ma in questo tipo di lavoro, più sei in grado di giocare coi tuoi sentimenti, più ti dai la possibilità di essere autentico verso te stesso.”
Pochi giorni dopo. Janine fece una commovente ma molto divertente improvvisazione sullo stesso tema. La ragione per cui i clown non sono pazzi, paranoici o isterici è che sono in grado di distanziarsi da quello che gli sta accadendo.
Quindi, il clown è un “pervertito polimorfico?” Ah, bella domanda! La mia sensazione è che non lo sia. Il clown non è un bambino ma un adulto, e addirittura un adulto piuttosto equilibrato.
Perché?
Perché la regola che ci permette di fuggire dalla nostra sindrome del bambino non amato sul palco ci permette di rivelare la nostra vulnerabilità e umanità di base. I clown dicono alla loro audience: “La persona dietro a questo naso rosso è così e io lo accetto. La persona è così e ride di sé stessa.”
I clown sono adulti perché si assumono la responsabilità della loro esistenza, non cercano scuse da nessuna parte e rendono conto solo a sé stessi. I clown affrontano la vita con tutta la forza e l’ottimismo della loro natura.
Mentre dico che i clown “affrontano la vita”, non esito a dire che affrontano anche la morte.
Ho detto prima che è facendo leva sulla loro debolezza che i clown diventano forti: ciò è vero anche per la persona. Attraverso l’auto-accettazione ed il piacere che ne deriva il clowning aiuta la persona dietro al naso rosso a creare progressivamente sé stessa nel produrre i propri sintomi.
Per concludere, vorrei farvi un’ultima domanda: Se la ricerca del proprio clown ha un effetto terapeutico e se la persona lavora con questo (e/o altri mezzi), anche il suo personaggio evolverà e forse morirà.
La terapia consiste nel trovare la morte del clown? Il mio clown un giorno si annegherà? Finora la domanda rimane aperta…